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Silvia Righeschi / sughero e legno di olivo / Torre a decima - Molino del Piano

Silvia Righeschi: il sughero e il legno d’olivo – 1 parte

“Io la mia vita me la ricordo sempre così. Non c’è stato giorno in cui mi sia stato regalato niente, nemmeno un giorno in cui non abbia dovuto lottare per affermare il mio diritto ad un posto nel mondo.”

Silvia ha quarantaquattro anni ma ne dimostra dieci di meno. Mora, minuta, il fisico asciutto e nervoso, l’espressione volitiva, lo sguardo dritto su chi le parla. Mi scrive i suoi ricordi e il suo racconto è fatto di immagini, passaggi veloci sui quali sorvola come fossero foto di un vecchio album.

Silvia Righeschi

“Sono nata in casa. Mia mamma non aveva detto a nessuno di aspettare un bambino, lei era una donna così… schiva, ed era riuscita a nasconderlo a tutti. Era vedova da molti anni e mio fratello tutto si aspettava tranne che trovarsi una sorella a vent’anni. Ma la vita non sempre va come ci si aspetta. Mia Zia mi ha fatto nascere, come si vede in quei film di una volta, con acqua calda e asciugamani. Ero molto prematura e al Meyer dissero che non ce l’avrei fatta. Passai quindici giorni in incubatrice piena fili e flebo e contro ogni previsione, con i miei 2,5 kg di peso tornai a casa sana e salva, conservo ancora la scheda delle dimissioni in un cassetto.
Probabilmente le persone nascono con un destino, qualcuno lo chiama karma, altri volere di Dio, io la chiamo Vita ed ognuno ne è padrone a prescindere dal suo inizio.”

Silvia è cresciuta in campagna con la madre, i nonni e gli zii al podere di Torre a Decima, meravigliosa tenuta storica poco distante da Molino del Piano, una frazione del comune di Pontassieve.

“Senza padre negli anni ’70 eri considerata strana…” mi dice “Quando mi chiedevano dove fosse il mio non sapevo cosa rispondere. Non era morto, non era divorziato, non era andato via…semplicemente non esisteva.”

Torre a Decima

Castello di Torre a Decima

Torre a Decima si trova sopra il paese di Molino del Piano ai piedi del Monte di Croce.
Da Firenze si raggiunge seguendo la Via Aretina verso Pontassieve.
Le origini del castello risalgono al XII secolo, era una delle sedi dei Conti Guidi che dominavano il territorio. Divenne poi proprietà dei Saltarelli, famiglia di signori e notai locali che lo ampliarono costruendo alte mura quadrangolari.

Lo stemma della famiglia Pazzi

Nel XV secolo la proprietà passò alla famiglia Pazzi le cui insegne definite da due delfini, ancora oggi marchiano il castello. La famiglia Pazzi abbellì ulteriormente l’interno con porticati e loggiati in stile rinascimentale e si narra che dopo il fallimento della famosa congiura del 1478 contro i Medici (che costò la vita a Giuliano fratello di Lorenzo) il Castello di Torre a Decima divenne il loro rifugio.

Cappella di Santa Maria Maddalena dei Pazzi

A pochi metri dal castello, nel verde della vegetazione circostante, si trova una cappella in pietra con campanile a vela. Di origine medievale, inizialmente era stata intitolata a S. Simone, poi nel 1835 Girolamo di Francesco de’ Pazzi decise di dedicarla alla santa di famiglia, S. Maria Maddalena, che aveva a lungo dimorato nel castello.

Il complesso del Castello di Torre a Decima fu gravemente danneggiato durante il secondo conflitto mondiale e nel primissimo dopoguerra è stato oggetto di un completo restauro. Divenuto proprietà privata al momento non è visitabile al suo interno.

Il Castello

La famiglia di Silvia ha vissuto nel podere di Torre a Decima fin dalla Seconda guerra mondiale. La zia, oggi novantacinquenne, le ha raccontato mille storie di quel periodo; le ha parlato dei bombardamenti, le ha raccontato dei tedeschi che si insediarono nella loro casa per venti giorni con le armi che lasciarono nella cisterna del podere; furono ritrovate dopo vari anni ed erano un vero e proprio arsenale. Le ha parlato del partigiano Bube che viveva nascosto nella loro casa e le ha descritto la paura di trovarsi con un mitra puntato addosso quando cercavano i partigiani.
Tutti questi racconti Silvia li porta cuciti addosso, sono emozioni vive sotto la sua pelle. Per questo il legame che la unisce a questi territori e alla sua famiglia è così forte e intenso.

La casa di Silvia, oggi restaurata completamente

“A Torre a Decima ho passato i miei primi quattordici anni, gli anni dell’imprinting, quelli che ti dicono chi sei e che ti danno una identità e un senso di appartenenza”.

Silvia, il destino nel nome

La casa al podere di Torre a Decima era molto isolata, i nonni facevano i mezzadri mentre la mamma e la zia lavoravano come infermiere; Silvia fin da piccolissima ha passato molto tempo da sola, è cresciuta nei campi e nei boschi intorno casa avventurandosi in totale libertà

“Ero felice, mi sentivo protetta nel mio mondo fatto di animali, di orti e alberi.
Ero talmente indipendente che nessuno mi cercava mai, nemmeno da piccolissima, il patto era che tornassi a casa per cena, niente di più e niente di meno e la vita scorreva.
Da piccola facevo cose pericolose. Salivo su alberi altissimi e lanciandomi mi chiedevo se mi sarei fatta male o se ce l’avrei fatta ancora una volta. Correvo sui tetti delle case come un gatto impazzito, rotolavo giù per dirupi per vedere dove mi sarei fermata ed ogni volta la spinta che mi davo era sempre più forte perché dovevo riuscire ad arrivare un po’ più lontano. Era una continua sfida con me stessa e Dio sa quanto contava… mettermi alla prova per me era tutto!
Quando lessi “Il libro della giungla” mi identificai in Mowgli e pensai che il mio nome, Silvia che deriva da “selva”, “selvatica”, non potesse essere più azzeccato per me… il karma continuava a manifestarsi coerente.”

Quando non studiava, si accoccolava fuori al sole a dormire, poi mangiava e si riaddormentava; quando si sentiva sudicio o accaldato, nuotava negli stagni della foresta, e quando voleva del miele (Baloo gli aveva detto che miele e noci erano piacevoli a mangiarsi quanto la carne cruda), si arrampicava sugli alberi per cercarlo, come Bagheera gli aveva insegnato. Bagheera si stendeva su un ramo e chiamava “Vieni su, fratellino” e da principio Mowgli si aggrappava come il bradipo, ma in seguito si slanciava di ramo in ramo, quasi con la stessa audacia della scimmia grigia.”

Rudyard Kipling “Il libro della giungla” 1894