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Beppe Allocca / Prato / Tessuti & Filati

Lofoio, la lana rigenerata di Beppe Allocca – 3 parte

A conclusione del suo racconto Beppe Allocca mi spiega che le fasi del recupero della lana sono molte, e altrettante sono le figure specializzate nelle lavorazione di ognuna di queste.
Fra tutte, quella del cenciaiolo è la figura simbolo del distretto tessile pratese e ancora oggi, grazie ai pochi cenciaioli rimasti, vengono riciclati a Prato circa ventiduemila tonnellate di stracci l’anno.

I cenciaioli

chiffonier 1899 – foto E. Atget

Il mestiere del cenciaiolo risale al XII secolo, quando gli Arabi introdussero in Europa le prime cartiere.
Per produrre la carta erano necessarie materie prime come lino, cotone e canapa; quando si diffuse la stampa a caratteri mobili (tra il XV e il XVIII secolo) la richiesta di carta aumentò sensibilmente e i produttori iniziarono a rivolgersi agli straccivendoli rendendo il cenciaiolo una figura di importanza cruciale.
Nel XVII secolo fu messo in funzione nei Paesi Bassi il primo impianto metallico che riduceva gli stracci in poltiglia.
In Germania la storia dei raccoglitori di stracci (lumpensammler) risale al XVII secolo e ne è rimasta traccia fino agli anni cinquanta soprattutto nella Germania Est.
In Bretagna i cenciaioli erano solitamente dei bambini particolarmente numerosi nella città di Botmeur .

In Francia, nell’Ottocento, lo straccivendolo ispirò vari artisti che raffigurarono la sua immagine dolente di ubriacone vagabondo, uomo misero al margine della società, reso però indispensabile dalla rivoluzione industriale. Lo raccontano scrittori come Hugo, Théophile Gautier, Zola e Baudelaire e incisori e pittori come Daumier, Gavarni e Vernet

1877 Carle Vernet, lo straccivendolo – incisione

“Lo vedi quest’uomo che, usando la sua zanna, raccoglie ciò che trova nel fango e lo getta nel suo cappuccio?… Questo vile straccio è la materia prima che diventerà l’ornamento delle nostre biblioteche, il prezioso tesoro dello spirito umano. Lo straccivendolo precede Montesquieu, Buffon e Rousseau.”

Louis-Séhastlen Mercier – 1781

In Italia i cenciaioli erano gli ambulanti che spingendo un carretto a due ruote o muovendosi su un carro trainato dal cavallo, giravano per i paesi raccogliendo materiale di scarto. Prendevano vecchi stracci dando in cambio aghi, fili, pettini, sapone e mollette per capelli. L’arrivo del cenciaiolo era una festa per i bambini che lo aspettavano chiedendo in cambio di qualche straccio biglie e dolciumi.

A Prato – mi racconta Beppe – il mestiere del cenciaiolo per il recupero della lana prese campo intorno al 1850 per esigenze di puro risparmio. La materia prima, la lana, era all’epoca molto costosa. Arrivava dall’Inghilterra, quella inglese era la migliore d’Europa, e costava moltissimo. I rapporti commerciali non erano semplici, il trasporto era rischioso, non sempre la merce arrivava a destinazione e tutto questo impattava sul costo del prodotto finale.
L’idea del riciclo nacque dunque per interesse economico e il primo tentativo svolto a Prato fu di un certo Baggio da Napoletano che provò a recuperare gli scarti della produzione tessile utilizzando per sfilacciarli una di quelle macchine che veniva usata nella filiera della produzione della carta. La prova andò bene, si ottenne un fiocco simile a quello della pecora che dunque poteva essere rifilato come se fosse vergine.”

Lo storico Franco Cardini nella “Breve storia di Prato” racconta che nel 1889 a nord di Prato nacque la società industriale e commerciale austro-tedesca Kössler, Mayer e Klinger in un grande complesso detto Il Fabbricone che dette lavoro a un migliaio di operai e trasformò profondamente la società pratese.
La nuova industria portò nella città di Prato una ventata di modernità:
nel 1901 arrivò il telefono, nel 1905 la luce elettrica e poco dopo il cinematografo. Ma gli operai facevano turni di lavoro pesantissimi e la mortalità nella città “dei cenci e della polvere” era molto elevata; proprio quei cenci che arrivavano anche da zone infette portavano con sé la malattia detta appunto dei cenciaioli, una forma di polmonite causata dall’inalazione delle polveri durante la cernita degli stracci.

L’area del Fabbricone è estesa circa ventitremila metri quadrati e fu costruita realizzando numerosi corpi di fabbrica circondati da alte mura di recinzione. Il progetto architettonico, innovativo per l’epoca, presentava pilastri in ghisa e coperture in legno.
Nel 1947 una parte dello stabilimento fu ceduta al Comune di Prato per realizzare uno spazio scenico teatrale di nuova concezione che fu inaugurato nel 1974 da Luca Ronconi con l’allestimento dell’Orestea.
Sul sito https://www.tuscanartindustry.com/visite-guidate-archeologia-turismo-industriale-prato-tai/ è possibile prenotare visite guidate di questo e altri siti di architettura industriale del territorio pratese.
Nel 2000 il teatro Fabbricone è stato ristrutturato completamente con un allestimento che ha ricreato un ambiente che evidenzia le origini industriali e manifatturiere dello spazio.
http://www.metastasio.net/

“In quella prima fase della storia del riciclo” continua Beppe “non si riusciva ancora a produrre un filato totalmente riciclato ma l’idea funzionava e faceva risparmiare sui costi di produzione, meritava dunque insistere e migliorare questo processo.
Produrre un pezzo con pura lana rigenerata al 100% garantisce un risparmio che può arrivare fino al 50% dei costi di produzione e fino a pochi anni fa questo non sempre veniva raccontato espressamente.
Oggi” mi dice Beppe “produrre lana rigenerata ha anche un valore etico e a noi piace evidenziarlo.

Il recupero della lana

La prima fase del recupero della lana è dunque la cernita fatta dal cenciaiolo che divide i capi per materiale, colore e consistenza.

“Fa parte della cernita anche lo sfoderare giacche e cappotti” mi dice Beppe “perché i materiali diversi vanno sempre separati fra loro e questo lavoro particolarmente faticoso che richiede anche una certa forza, a Prato veniva detto “tirare la coda al diavolo”. In passato era svolto a domicilio da uomini robusti, spesso da muratori o operai di vario tipo, che facevano cioè lavori completamente diversi e che a fine giornata per qualche ora tiravano la coda al diavolo arrotondando le loro entrate. Ai bambini restava invece il compito di togliere i bottoni; lo facevano dopo la scuola dando il loro contributo alla piccola impresa di famiglia o al lavoro a domicilio che facevano i genitori”.

La seconda fase è la carbonizzazione che permette di togliere le eventuali parti vegetali (viscosa e cotone) che possono trovarsi mischiate alle fibre di lana. All’interno di un cilindro viene vaporizzato acido cloridrico che scioglie le fibre vegetali lasciando la lana intatta.
Si passa poi alla sfilacciatura che riduce il tessuto in strisce sfibrate.
Segue la battitura della lana per togliere le impurità dalle fibre e infine la cardatura che consiste nel districarle e renderle parallele per la nuova filatura. Le fibre così rigenerate vengono filate con una tecnica che torce la massa cardata ottenendo un cordino più o meno sottile detto “filato”.


Lofoio

“La nostra attività è assolutamente artigianale” spiega Beppe;
“nel nostro laboratorio entra la rocca ed esce il prodotto finito, realizzato completamente da noi, (cioè da me, con la mamma, mia sorella e le zie).
Acquistiamo a Prato solo filati rigenerati; i nostri fornitori sono cenciaioli della lana, del cashmere o del cotone.”

Beppe mi spiega che con una prima smacchinata nel suo laboratorio viene realizzato il semilavorato che viene poi rifinito nella seconda fase.

“Ogni articolo deve poi essere lavato e anche questa fase viene svolta da noi. Utilizziamo detersivi ecologici, 100% naturali e vegan, che acquistiamo in una azienda di Rimini (https://www.officinanaturae.com/it/) perché crediamo sia importante parlando di riciclo e di ecosostenibilità porre attenzione a tutte le fasi del nostro lavoro. Nel nostro laboratorio i prodotti finiti vengono poi stirati, etichettati, confezionati e messi in vendita nel negozio di Prato in Via del Serraglio 100, o nelle fiere in tutta Italia.

Ho iniziato la mia attività dopo la morte di mio zio, l’impannatore di cui vi ho parlato in precedenza, era lui che curava la parte commerciale dell’azienda della zia.
Con l’arrivo della crisi e le grandi imprese che iniziavano a far produrre all’estero, il modello di azienda della zia si rivelò superato. Lei era un’artigiana, non aveva idea di cosa fosse il marketing, aveva sempre lavorato aspettando che il cliente bussasse alla porta ma i tempi erano cambiati.


Mi propose di continuare l’attività e io ho accettato decidendo però di ridimensionare l’azienda. Mi sono trasferito in uno spazio molto più piccolo, ho inserito i macchinari per lavare e stirare i prodotti e ho scelto un nuovo nome, LOFOIO.

Il ganzo e lo sciarpello

Nel catalogo Lofoio si trovano principalmente guanti, cappelli e scialli realizzati in una vasta gamma di colori; fra tutti gli articoli, quelli più originali, i prodotti di punta, sono il “ganzo” e lo “scaiarpello”.
“Per realizzare un cappello – mi dice Beppe – si lavora un tubolare che viene chiuso ad una estremità.
Si pensò poi che il tubolare poteva essere venduto anche aperto così da diventare scaldacollo; quando in seguito provammo a proporlo per il doppio uso, sia scaldacollo che cappello, mostrando alle fiere come poteva essere piegato per ottenerlo, la reazione qui in Toscana era sempre la stessa, “Bada ganzo…!” e quindi non potevamo che chiamarlo così, “il ganzo.” Nel tempo il ganzo è diventato il nostro best seller anche grazie al contributo di mio cugino che mi ha aiutato nella comunicazione creando loghi e grafiche che giocavano proprio sulle parole.


Lo sciarpello nasce invece sempre da un tubolare però più stretto e più lungo che inizialmente veniva chiuso in cima e in fondo per farne una sciarpa. Avendo il diametro giusto per la testa, provammo a lasciarlo aperto per indossarlo come cappello con l’altra estremità girata più volte intorno al collo; dunque un po’ sciarpa e un po’ cappello, sciarpello!”

Il futuro di Lofoio

“Ho sempre pensato che il mio futuro sarebbe stato nel tessile, sapevo fin da ragazzino che questa era la mia strada. Però nel tempo è cambiato il modo in cui approcciarmi a questo lavoro.
Se alcuni anni fa –
mi dice – quando nacque Lofoio, mi avessi chiesto come avrei desiderato che diventasse questa mia attività, probabilmente ti avrei risposto che mi sarebbe piaciuto che diventasse un marchio famoso con centinaia di punti vendita in Italia e nel mondo, un magazzino gigantesco, più sedi sparse…insomma ti avrei risposto con sogni in grande.
Oggi invece io sogno in piccolo e spero che Lofoio resti nel tempo così come è adesso, perché questa è la nostra dimensione perfetta.
Ho amici che lavorano nel mio stesso settore, le loro aziende sono dieci, venti volte più grandi della mia, hanno decine di dipendenti, fanno fatturati enormi ma passano la vita nel magazzino e magari loro sono contenti così, ma io al loro posto non lo sarei.
Io, mia mamma e mia sorella lavoriamo tranquillamente; ognuno di noi riesce a fare quello che vuole fare oltre al lavoro che ci rende quanto va bene per noi, lasciandoci ampi spazi di libertà e questo, credimi, non ha prezzo. Se il giro di lavoro di Lofoio raddoppiasse io dovrei dedicarmi esclusivamente a questo trascurando tutto il resto; Lofoio è tutto me stesso ma non è la mia vita, io sono anche altro. Questa dimensione è perfetta per me perché mi permette di dedicarmi anche all’altra mia grande passione, il teatro.”

L’amor che (non) muove il sole

A febbraio 2023 è andato in scena per la prima volta al teatro Borsi di Prato il terzo spettacolo scritto e interpretato da Beppe Allocca, “L’amor che (non) muove il sole”.
Qusta volta Beppe non parla di Prato ma racconta la vita di Galileo Galilei mischiando, a suo modo, realtà e finzione.

“Racconto la vita dello scienziato più prezioso della nostra storia, colui che ci ha preso per mano nel mondo antico e ci ha portato nel mondo nuovo.” mi dice Beppe.
“Il filo conduttore dello spettacolo è la fiducia dell’essere umano nei confronti della scienza. Ripercorro le tappe fondamentali della vita di Galilei creando incontri impossibili, come quello con Dante Alighieri, che è vissuto oltre due secoli prima di lui. Mischiando passato e presente li faccio dialogare con un mezzo moderno come WhatsApp. Racconto le battaglie che hanno reso Galileo il più celebre uomo di scienza del pianeta, un uomo che fino alla fine della sua vita si è battuto per difendere il suo pensiero”.