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Arturo Badii / Greve in Chianti / Metalli

L’arte in ferro di Arturo Badii – 1 parte

Casole

Sulle pagine di un quaderno a righe ha annotato i ricordi che vuole raccontarmi. La calligrafia è pulita, le lettere senza riccioli e svolazzi sono scritte con una precisione che richiama il passato.
Mi ero fatta l’idea che Arturo Badii, classe 1949, fosse un uomo dal carattere ombroso poco incline a raccontarsi, e temevo che le mie domande potessero infastidirlo. Invece mi sorprende, apre il quaderno, sorride timidamente e inizia a frugare nella sua memoria.
Per me ascoltarlo è come fare un viaggio nel tempo, i luoghi di cui mi parla mi sono familiari, ma quella che racconta Arturo è una realtà completamente diversa da quella che conosco io. Le sue parole descrivono una vita quotidiana faticosa e infatti “fatica” è la parola che ricorre più spesso nei suoi ricordi.

Figlio unico di famiglia contadina, nasce a Casole, piccolo borgo colonico a circa 7 chilometri da Greve in Chianti, la sua casa è vicina a quella di Oriana Fallaci.

” Con Oriana non avevo contatti, la conoscevo ma non dava confidenza, era poco affabile. Suo padre invece era cordiale, faceva l’artigiano intagliatore e aveva molta stima del mio babbo, non voleva nessun altro a potare i suoi olivi. Lo accompagnavo spesso a Firenze, Oriana non guidava, e un giorno detti un passaggio anche a Panagoulis ma non sapevo che fosse lui, lo capii solo dopo. Ricordo che mi colpì quell’uomo con l’aria impaurita dietro i suoi baffoni…si guardava sempre alle spalle
come chi si sente minacciato.”

La strada che porta a Casole

…alberi sempre verdi, castagni, querce, cerri, pini, cipressi, macchie di more e di felci, ed alloggiano una fauna da paradiso: lepri, scoiattoli, volpi, daini, cinghiali, nonché moltissimi uccelli. Merli e cinciallegre e tordi e usignoli che cantano come angeli. Le colline sono ripide ma struggentemente armoniose, coltivate in gran parte a filari di vigne che producono un vino assai rinomato e a uliveti che producono un olio assai saporito e leggero. In passato ci seminavano anche il grano con l’orzo e la segala, e la mietitura era uno dei due eventi con cui si misurava il trascorrere delle stagioni. L’altro era la vendemmia. Tra la mietitura e la vendemmia fioriva il giaggiolo, i campi si accendevan d’azzurro, e da lontano sembravano un mare che sale o che scende in gigantesche ed immobili ondate. Dopo la vendemmia fiorivano le ginestre, i campi si bordavano di siepi gialle, e col rosa delle eriche o il rosso delle bacche ogni siepe sembrava una vampata di fuoco. Spettacoli che nei punti più fortunati si godono ancora, insieme a tramonti sanguigni e violetti che tolgono il fiato. 

Oriana Fallaci “Un cappello pieno di ciliege”
Casole

“Sono nato nel dopoguerra, all’epoca c’era la mezzadria – racconta – il padrone ci dava la casa e il raccolto si divideva a metà. Mi ricordo una vita semplice, si lavorava tutto a mano, una grande fatica…!”
Arturo ripensa alla sua vecchia casa dove viveva coi genitori e uno zio:
” Ricordo un grande camino che bruciava tanta legna, era l’unico luogo caldo della casa e salire sul canto del fuoco era un privilegio e un piacere. Quel fuoco serviva per scaldarci e anche per cucinare. In inverno più che altro si mangiavano molte castagne sia “bruciate”, arrostite sul fuoco, che “ballotte” cioè lessate nell’acqua.
La mattina mio zio si alzava presto e come prima cosa accendeva il fuoco e riempiva la padella di castagne per fare le bruciate. Una parte la mangiava subito, un’altra se la metteva in tasca per consumarla durante la giornata mentre lavorava nel campo. Poi a cena di nuovo le caldarroste. Oggi non riuscirei a mangiarne così tante.”


Le giornate trascorrevano lavorando nei campi e nei boschi di castagno, i genitori di Arturo intrecciavano cesti per la vendemmia e preparavano le “molle” che servivano a raccogliere i rcci e le “ricciole” con le quali venivano aperti per estrarre i marroni.

Cestino di castagne, mazzuolo e pinze (ferro e rame)

” Non c’erano molti soldi, la mamma cuciva e faceva a maglia calzini e maglie. Ricordo che quando le donne cucivano tenevano uno scaldino in mezzo ai piedi, prendevano il ditale e lo riempivano di farina di castagne; poi lo mettevano sulla brace, la farina abbrustoliva e diventava più gustosa, mangiavano questi granelli come se fossero state caramelle.”

Arturo ricorda perfettamente il ritmo delle giornate della sua infanzia, la cura della casa – “Il babbo era ordinatissimo, la sua cantina era sempre perfettamente pulita”– e mi descrive gli attrezzi che utilizzavano, gli arredi della casa, la vecchia madia, ripensa ai gesti dei suoi genitori quando preparavano il pane, l’impasto che veniva diviso in forme e messo su un asse di legno coperta con un panno bianco e lasciato a lievitare fino al giorno dopo.
“Il mattino seguente – racconta – si scaldava il forno con grandi fasci di scope e a mezzogiorno il nuovo pane era pronto. Si faceva una volta alla settimana e doveva durare fino all’ultimo giorno, alla fine era un po’ più duro ma era buono lo stesso.”

Il forno caldo dopo la cottura del pane serviva anche per cuocere i materi che venivano raccolti nel bosco per realizzare i cesti.
“Andavamo nel bosco di castagni e sceglievamo quei “polloni” che spuntano dalla ceppa del castagno, ci servivano i rametti più dritti possibile, alti circa 120/140 cm con un diametro di 4/6 cm. Dopo la raccolta si mettevano in una vasca di acqua piovana perché le fibre del castagno mantenessero una sufficiente elasticità per poter essere lavorate. Poi si mettevano nel forno per circa 45 minuti, in questo modo i materi perdevano la parte di acqua producendo il vapore che li avrebbe resi più morbidi e lavorabili. Si intaccavano le estremità e si sfilacciavano in strisce di 4/5 cm che venivano “conciate” stando seduti su una panca, venivano tenute con il ginocchio e per la concia si usava il coltello a petto, un coltello con due manici alle estremità; era un lavoro difficile e di precisione! Poi si procedeva con l’intreccio iniziando dal fondo del cesto”

Il freddo in inverno era intenso e nelle case dei contadini era immancabile lo scaldaletto.
” Si metteva sotto le coperte prima di dormire, era un trabiccolo di legno a forma di arco con un gancio al centro dove si appendeva un recipiente di metallo o terracotta che veniva riempito di brace e cenere. Scaldava il letto molto bene, e qualcuno talvolta entrava sotto le coperte senza toglierlo per godersi di più il calore ma se si addormentava finiva per bruciarsi i piedi o dare fuoco a tutto”.

Lo scorrere del tempo era scandito da gesti che si ripetevano quotidianamente nelle singole case e dagli eventi stagionali che riunivano la comunità dei piccoli borghi di campagna. La vendemmia si svolgeva con la collaborazione di più famiglie che a turno si scambiavano la manodopera.
” Entravo nei tini a piedi nudi per schiacciare i chicchi d’uva – dice Arturo- e poi ricordo quei pranzi serviti sulla tovaglia stesa sul prato dalle donne che portavano affettati e tegami per mangiare tutti insieme”

La frangitura delle olive era svolta invece dalla singola famiglia.
“ Le olive si raccoglievano a mano col paniere a tracolla, si chiudevano in balle di juta per portarle al frantoio che aveva la macina in pietra. L’Olio nuovo si metteva in barili di legno e a casa si travasava negli orci di terracotta. Dopo la frangitura per cinque-dieci giorni non si mangiava altro che fettunta”.

Chiesa di Sant’Andrea a Casole

Il Natale

“Il Natale era molto sentito, era qualcosa di magico anche senza tutte le luci, e gli addobbi di adesso. La decorazione principale era il Presepe e da ragazzi si dava il nostro contributo per farlo anche in chiesa. Cercavamo la borraccina, le pigne, tutto quello che potevamo trovare nel bosco per fare lo sfondo e poi i personaggi li metteva il prete.
Mi piaceva fare il presepe e così iniziai a farlo anche a casa, via via sempre più grande. Le mie casine in metallo montate su radici sono ispirate proprio al presepe.
L’addobbo dell’albero invece non era molto diffuso, magari si metteva in casa qualche rametto preso nel bosco…. I regali che mi aspettavo potevano essere cioccolatini, caramelle, mandarini, niente di più. Ricordo il profumo dei mandarini… alcuni li mettevano negli armadi per profumare la biancheria.”

Paesaggio

Arturo prosegue il suo racconto. “In campagna l’istituzione principale era il prete. All’epoca a Casole c’era Don Solaro, l’attuale don Luigi Gori arrivò che avevo circa 11 anni. Don Solaro aveva una automobile, una Topolino. All’epoca erano in pochi ad avere la macchina lassù a Casole. Ogni anno Don Solaro portava in gita a Greve con la Topolino i ragazzi del catechismo. Per noi era una occasione di festa, andavamo al cinema oppure a vedere una partita, e in quella Topolino si viaggiava anche in nove!”

La Prima Comunione con Don Solaro

La scuola

La scuola elementare era in una casa del borghetto di Casole, una sola stanza con una stufa di terracotta che una signora che abitava lì vicino accendeva la mattina presto prima dell’arrivo dei ragazzi.
“Eravamo tanti, maschi e femmine insieme. In alcuni anni facevamo due turni, mattina e pomeriggio perchè eravamo troppi. Ricordo giornate a far pagine di stanghette e poi di lettere usando l’inchiostro col pennino e quando scappavano delle macchie sulle pagine i voti diventavano più bassi.
I maestri venivano da fuori e se abitavano molto lontano restavano a dormire nelle stanze della scuola.”

“Dopo la quinta feci anche la sesta. La società stava cambiando, nascevano attività artigianali e industriali così alcuni ragazzi dopo la sesta iniziavano a lavorare. I miei genitori vollero invece che continuassi a studiare e mi mandarono alle medie a Greve.”
Arturo ricorda la sua emozione per quel cambiamento, andare a scuola a Greve, rapportarsi con tanti professori, trovarsi in mezzo a tanti ragazzi, le prime cotte e i messaggini scritti a mano per comunicare con le ragazze. Arturo è timido e riservato, alle interrogazioni si bloccava e questa difficoltà lo perseguiterà poi anche da grande; di nuovo parla di fatica, ma questa volta per il suo carattere.